Il resoconto è la trascrizione del diario scritto durante il viaggio da Andrée. Ogni errore o imperfezione è dovuta alla fretta con cui si scrive mentre si viaggia o alle informazioni incomplete che avevamo durante il viaggio.
Le foto di questo viaggio sono mediocri perché forse sono state sviluppate male, o perché col tempo sono “invecchiate di colore” ma soprattutto perché la luce è stata pessima e il Pakistan manca di colore oppure perché c’è solo una tinta uniforme grigiastra o giallastra e non so perché. Mi sono accorto nel postare sul sito il viaggio, che forse abbiamo perso un rullo di foto perché nella parte finale non ci sono foto dello Skoro-la e della discesa fino a Skardu…
PAKISTAN, luglio 1985
Rawalpindi (alt. 510 mt), 11 luglio 1985
Here we are: solito volo massacrante e salti di fuso. Visto film in aereo: tutti i baci sono stati tagliati! E’ il primo approccio con i musulmani. Sull’aereo incontriamo una ragazza di Aosta, Ivana Grimod, che va a trovare il suo boy friend romano che lavora a Peshawar.
Aeroporto di Karachi modernissimo: i bus che portano dall’aereo all’edificio sono più belli dei nostri e climatizzati. Meno bailamme che a Delhi. Climatizzato anche l’aeroporto di Rawalpindi, nessun problema per i bagagli, cambio travellers’ ecc. Il caos comincia fuori. Soliti tizi che ti inseguono per portarti il bagaglio anche se li cacci. Solito amico del tassista che sale in taxi con noi. Tutti parlano più o meno inglese: alcuni probabilmente non capiscono niente, ed è la ragione per cui danno delle risposte assurde, date per farci piacere.
Incontrata una spedizione bergamasca al Gasherbrum II: vanno al Gatmell hotel, ma per noi non c’è posto.
Andiamo al Flashman: più lussuoso, per gli standard pakistani, e caro: 537 rs per 2.( 1 rs = 125 lt). L’impiegata ci dice che l’uomo del TIC sarà lì nel pomeriggio dalle 2 alle 5. Mai fidarsi e check tre volte prima di prendere per buona ogni affermazione. Alle 4 ci svegliamo: l’impiegato non c’è, tornerà dopodomani perché domani Venerdì è festa. Riusciamo a prendere un biglietto aereo per Gilgit per domattina alle 5.30: se parte. Costa niente, meno di trentamila lire.
Rawalpindi è brutta. Fa caldo, almeno 35°, ma è meno umido che a Delhi (lo dice il mio tricoigrometro personale). Solite strade affollate di soli uomini che camminano tenendosi per mano e si abbracciano; uomini seduti a gruppi per terra; baracchini di pannocchie tostate, biscotti ecc; donne velate; camion decorati in quantità. Dopo aver visto gli autobus penso che bisognerebbe essere dei veri duri a prenderne uno.
Cena pakistana piccante al Kashmirwalash restaurant: ottime le spremute (vere e proprie) di mele e il gelato di fior di panna con frutta fresca. I prezzi sono alti per qui (30.000 lire la cena per due).
Pindi, 12 luglio
Paese delle attese. Sveglia alle 3.30 con colazione! Imbarco per Gilgit: formalità infinite e infiniti controlli del bagaglio a mano e personali (c’è la legge marziale). Sbarco immediato per brutto tempo. Attesa per il prossimo volo, ma si prevede già che non partirà: è la stagione dei monsoni e il tempo è in peggioramento. Intanto sono altre tre ore e mezzo di attesa.
Ore 9.50: cancellato anche il secondo volo.
Notizie utili per un’altra (eventuale) volta: al primo volo cancellato offrono un lussuoso breakfast. Al secondo, il pulmino fino alla PIA: qui un albergo di bassa categoria (camera per 4, con letti a castello allo Shama hotel) rifiutato per andare al Silver Grill vicino alla PIA, da cui il bus free ci porterà domani all’aeroporto, e dove alloggia un’amabile chirurga svedese, Margaretha Hòòk, che viaggia da sola sulle orme dei genitori che fecero la silk trade route nel 1930.
Ora che ci stiamo abituando (allow time for the culture gap) questi pakistani ci sembrano tutto sommato cortesi e amichevoli. Fisicamente sono spesso alti e non brutti di aspetto, ma quasi sempre hanno barba e baffi; alcune (rare) donne hanno i capelli corti. Tutte però sono vestite allo stesso modo, con il shamir qalwaz, che è una lunga tunica portata sopra dei pantaloni lunghi e larghi e, optional, uno scialle-foulard.
Questi completi, spesso di seta, possono essere molto belli, con il foulard leggero di crepe de voile. Rare donne in città portano il purdah, che lascia visibili solo gli occhi. Gli uomini paiono in divisa, perché indossano tutti il shamir qalwaz in tinta unita, bianca, crema, grigia o beige e generalmente sporca. Sembrano quelli della nettezza urbana prima che indossassero quei vivaci gilet arancioni di adesso. Ci sono tantissimi bambini, belli, sporchi, con gli occhioni truccati di kohl: con loro gli uomini si dimostrano molto affettuosi.
All’aeroporto sono pochi i poveri e sono relativamente pochi quelli che dormono sugli strapuntini. D’altra parte non si entra nell’aeroporto vero e proprio senza un biglietto e i militari controllano le entrate. Inoltre Rawalpindi ha un quinto degli abitanti di Delhi e il divario tra ricchezza e povertà sembra minore.
Il receptionist del Silver Grill è gentilissimo e si dà da fare, non essendoci stanze, per trovarci posto al Kashirwalash dove pure sono molto gentili (si vede che al Flashman erano troppo abituati con gli alpinisti). Lo standard è simile al Flashman e costa la metà. Anche qui TV color con rari programmi in puro americano (o sono cassette registrate per turisti stranieri?). Il telegiornale è in inglese.
Alle dodici, dopo una lotta con qualche tassista per tirar giù il prezzo della corsa, decidiamo di prendere una carrozzella con tanto di cavallo per la stazione dei bus a Pir Wadhi. E così scopriamo l’autentica Rawalpindi, perché questa dove siamo è la zona residenziale degli alberghi.
Le strade diventano sempre più affollate, le case più cadenti, vecchie case a uno o due piani, alcune di legno intarsiato cn splendidi bow-window, altre di mattoni ma mezzo crollate, con le persiane rotte e pendenti, il tetto sfasciato, i buchi nei muri; passiamo alcune moschee che sembrano di zucchero candito, da cui potenti altoparlanti diffondono la predica. Andiamo avanti e le case hanno tutte un negozio a pianterreno, un vano aperto che si prolunga all’esterno, dove è deposta tutta la merce. C’è di tutto: dai sacchi a pelo di dubbia igiene ai vasi di latta riciclati, ai tessuti, ai letti di legno, alle molle, alle bancarelle della frutta (manghi, banane, albicocche bianche). C’è un odore di curry e chiodi di garofano. Sulla strada la gente fa pipì, mangia riso e chapati, dorme sulle brande di paglia intrecciata, un bambino nudo si fa la doccia con un secchio. La folla si fa sempre più fitta, le case più povere, di mattoni fatti con il fango, semidistrutte. Qualche immondezzaio e qualche pollo o gatto morto ammorbano l’aria. Mosche.
Scendiamo al bus stand del Pir Wahdi: un caravanserraglio di autobus istoriati in un circo fatto di porticati dove i venditori dei biglietti, attorniati dagli amici, aspettano i clienti al loro botteghino. Una donna mi lancia uno sguardo di netta riprovazione per la mia gonna monacale al polpaccio che scopre la caviglia e mezza tibia: c’è anche disprezzo in quello sguardo. Mi sento scostumata, malgrado abbia il collo della camicia chiuso e le maniche tirate giù fino al polso.
Tutti si fanno intorno a noi e ci contendono. Se finiremo per prendere l’autobus domani sarà sicuramente folkloristico oltre che massacrante e generatore di artrosi, parassitosi e IVU da globo vescicale.
Cena al Silver Grill con la dottoressa Hook che, scopriamo, è medico in un ospedale missionario in Nepal dal 1976. Buonissimo il lassi, bevanda di yogurt di capra. Buonissimo il nan, versione più fine del chapati. Purtroppo il cibo pakistano, che mi ostino a mangiare per principio, mi pesa sullo stomaco. Spese 100 rs in due.
Sabato 13 luglio, in wagon.
Diluvia. Flight for Gilgit cancelled. Un’ora di attesa perché l’autobus della PIA ci riporti in città. In compenso non si riescono a riavere i soldi del biglietto: Friday and Saturday closed. Cosa sia chiuso poi non so, visto che gli uffici sono aperti. Scopini scopano a quattro zampe. Una decina di passeggeri, stufi di aspettare un improbabile volo, vogliono affittare un van per Gilgit. Ci pare un’ottima idea. Non abbiamo tenuto in considerazione l’assoluta mancanza di puntualità dei locali e l’abitudine all’overcrowding, overloading and so on. Per cominciare, un tassista scemo non sa portarci all’indirizzo che gli vien dato –Modern Hotel, una misera topaia- né capisce un tubo di inglese per cui è inutile sgolarsi a dirgli di fermarsi e chiedere. Miracolosamente a destinazione, troviamo il wagon che è per 9 persone, ma che viene occupato da quindici più l’autista.
Convinti che tanto sarà così ovunque ci rassegniamo. I bagagli vengono messi sul tetto (continua a diluviare) e ci camminano sopra per sistemarli. Alla fine, pigiati tutti nel wagon per mezz’ora, manca l’autista, manca anche l’aria, e c’è invece un odore che ho ormai associato ai pakistani ed è un misto di uovo sodo, curry e mango marcio. Oh, perché non ho portato Tuberose, by Mary Chess?
Da stamattina sono astutamente in jeans; la borsetta a vita, dove tengo soldi e documenti, è appiccicata allo stomaco sotto alla camicia. Il viaggio è uno strazio, anche se me lo aspettavo anche peggio: diciassette ore in tutto, con qualche fermata a mezzogiorno e sera per mangiare (nan e montone in salsa piccante, brr! ! Ia sera, invece del montone, per disperazione mangio fave e, secondo me, gambi di cardo, sempre in salsa piccante); naturalmente non servono ]e posate e non riusciamo neanche ad averle: si mangia con le mani o si tira su col chapati.
Ci fermiamo a bere a ruscelli e sorgenti (che medico sono? senza Steridrol, ma siamo stravolti e disidratati).
Siamo in quattro in fondo al pulmino: dove siamo noi, le finestre non si aprono; quando smette di piovere e viene fuori iI sole cuocio. Per fortuna ci prendiamo preventivamente un Floxlcam e saremo salvi per tutto il viaggio da contratture e mal di schiena, I pakistani imperversano con Ia radio e le musicassette a tutto volume del resto abbiamo gli altoparlanti nella nuca per tutto il viaggio. A mezzanotte chiedo debolmente se possono abbassare il volume. Di notte si viaggia con la luce accesa dentro il pulmino dritta negli occhi di vuol dormire. Nei rari posti in cui ci fermiamo, non devono aver visto molte donne europee. Ci, e soprattutto mi, squadrano. Del resto non si vede una donna pakistana in giro per quel che ne so, potrebbero essere una specie estinta. Neanche velate, neanche l’ombra, neanche le bambine. Solo uomini. Sono molto contegnosa, tengo gli occhi bassi (ho il terrore che penslno che li guardo) sto vicino a Michele ma non lo prendo neanche per mano, per carità! Mi siedo compostamente, mi chludo il collo della camicia. E’ un paese in cui riescono a farti sentire impudica anche se ti sdrai per riposarti. Hanno questi meravigliosi letti di paglia intrecciata che tengono fuori al fresco e dove dormono la sera. Alle due di notte, ci fermiamo per bere ad un piccolo tea-stall. Tutti gli uomini sono fuori sui loro lettini a prendersi il vento fresco della notte e a guardare un cielo fitto di stelle, mangiando melone. E le donne, povere? Che pena. Non hanno il piacere di una passeggiata sotto le stelle, mano nella mano con il loro boy-friend: una cosa così casta e cosi romantica. Cosa perdono, tutti! Sarà per questo che non sono allegri? Ci manca un pò d’allegria. E’ un popolo cupo.
Arriviamo a Gilgit alle quattro di notte. Ci tocca fare il giro di tutto il paese per depositare ognuno alla sua porta. Gli alberghi sono pieni, finiamo at Park Hotel, che sarebbe anche di media categoria, malgrado lo scarafaggio in bagno che inseguo vanamente con la scopa, ma è un forno. A che serve un ventilatore in un forno? Lo scopriamo quando manca la corrente e salta anche iI ventilatore. Siamo un pò giù di morale.
Gilgit, Domenica 14.7
alt. 1493 mt
Tutta Gilgit è un forno, da colpo di calore.
Ci svegliamo per iI caldo aIle 8,30, facciamo la doccia e scappiamo via dal Park Hotel, Per fortuna al Hunza Inn si è Liberata una camera. Andiamo a far col-azione nel giardino interno, che è delizioso. E’ una giornata splendida, di quelle in cui decollerebbe anche un P 19! Ma al bazar ci dicono che gli aerei non arrivano da Pindi per via del cattivo tempo li. Ci sentiamo furbi. Non vendono cappelli di paglia, né sembra, alcun cappello a tesa larga; solo una sorta di fez ricamati, o quei berrettini di lana beige con l’orlo rivoltato e arrotolato, tipici degIl Hunza. Ci verrà l’insolazione. Gran cosa aver portato i pantaloni pakistani e Ie camicie tuareg, almeno sto fresca.
Vicino al Park Hotel c’è un negozietto [Hunza Handicraft Center) gestito da un simpatico Hunza: ha una faccia più occidentale che pakistana. In effetti gli Hunza si dicono discendenti dei soldati di Alessandro Magno. Promette di organizzarci tutto per iI trek, Un altro ci propone un passaggio gratuito sul suo van per Hunza domani. Un terzo, non richiesto, ci dà un passaggio nell’assolata strada verso l’albergo. Sono tutti gentili e il bazar è fornitissimo di ogni cosa necessiti ad una spedizione, dai cibi in scatola agli energetici di marca pakistana, alle stoviglie, sacche di tela, fornelli ecc. Basta non essere schizzinosi sulla qualità. All’Hunza Handicraft ci sono persino degli scarponi da alta quota completi di ghetta lasciati da qualche spedizione, e bombole a gas! E’ un paese che vive sul trekking and mountaineering, Al bazar trovjamo due ragazze francesi che girano da sole; si chiamano Sylvie, istruttrice di gym e Evelyne, rnaestra elementare.
Nel pomeriggio facciamo le spese. Fa un caldo torrido [+40°) ma è molto secco. Gilgit è in una valle attorniata da aride montagne di 3500-4000 mt dietro alle quaIl emergono i picchi innevati del Dunami (ancora vergine) e dell’ Haramosh (un settemila) , le nostre prime montagne vere! Probabilmente stiamo pagando tutto il triplo, ma son tutti molto servizievoli. Per errore ci rivogliamo ad un elettricista chiedendogli del sale, e questi manda il figlioletto a comprarcelo. Beviamo un succo di mango, delizia” Compriamo anguria e albicocche.
Chissà perché ai ristoranti non hanno mai la frutta fresca, e al mercato ce ne sono tonnellate’ Ceniamo: riso fritto e pollo al curry non eccessivamente piccante. Credo che sarà la mia dieta per un mese. A cena, attacco di invidia, incontriamo degli spagnoli qualsiasi che son reduci da un seimila, e due francesi, Bernard Muller e Laurence de la Ferrière, che hanno fatto il Nanga Parbat con la spedizione polacca della Rutkiewicz. Sono simpatici e alla mano. Ci sentiamo due pulcini neri. Considerazioni sul fatto che italiani a coppie, singoli, o peggio ancora italiane non si vedono molto da queste parti
Karimabad, Lunedi 15/7
Trying to figure out if I could travel all by myself. Am here alone in a shop, drinking coke e scrivo italiano perché naturalmente mi guardano nel quaderno.
Tutti questi negozietti di Gilgit hanno delle panche dove ci si siede a bere o riposare in ogni negozio l’acquirente si siede: che fretta c’è? e magari prende il tè, In questo momento oltre a noi ci sono quattro locali. c’è un vago odor di legno di sandalo, iI primo che sento da quando sono qui -in India faceva parte dell’odore dell’India, e della sua nostalgia. La mancanza di odori buoni o associati a emozioni piacevoli è una caratteristica sgradevole di questo viaggio per me che tengo in alta considerazione i piaceri dell’olfatto. Una radio suona un rock pakistano: a parte la musica folk che è un pò menosa, mi sto abituando alle loro musiche. Nel van, di notte, avevamo sentito una lunga nenla non dlssimile dalle preghiere dei monaci tibetani, Probabilmente preghiere anch’esse. Alle undici troviamo un minibus per Hunza: pigiati come sardine. La strada corre lungo l’Indo, maestoso e marrone. Il paesaggio è arido: terra sabbiosa e sassi interrotta da rare oasi verdeggianti e polverose dove giungono i canali d’irrigazione. La KKH è rovinata e franosa; ad Aliabad dobbiamo scendere tutti e prendere la scorciatoia perché ]a strada è in uno stato tale che l’autobus non ce la fa se è a pieno carico.
Fa un caldo torrido, nonostante i 2400 mt. Dl là dai monti, appaiono maestose cime innevate, Ci fermiamo ad aspettare l’autobus sotto ad alberi di albicocche: ce ne offrono in quantità. Sono le migliori che abbia mai mangiato in vita mia. Alcune sono cosi dolci che sembrano già marmellata.
A Karimabad ci accoglie iI Hil] TopInn: costruito da meno di un anno, ha un giardino interno con vista a picco sulla valle e le montagne. La vista è bella, ma meno grandiosa di quanto ci aspettassimo, perché da qui i settemila non sono visibili. Moriamo di sete. Più andiamo avanti meno è facile trovare da mangiare e da bere. A Gilgit, nei ristoranti, ci davano la Iista piena di belle cose, per poi dirci che avevano solo il loro mutton curry. Qui non ci sono cokes né altro, ma solo acqua che sembra fango e tale rimane anche a lasciarla decantare, però è freschissima e buonissima e dicono che sia quella che dà lunga vita agll Hunza (sono molti i centenarl e passa), La camera che ci danno è pulita, ma senza ventilatore perché non c’è neanche l’elettricità ma solo lampade a gas e candele, L’acqua della doccia è, naturalmente, a 12°. Andiamo al villaggio. Poche case di fango, col tetto a terrazza,. Ci accompagna la guida Mujib, Compriamo albicocche e mulberries secche [iI paese è noto per la sua dolcissima frutta secca) e semi di mera per fare una specie di tisana (perfida).ancora albicocche fresche del- suo giardino. Ne facciamo indigestione. mangiare anche l’interno del seme dell’albicocca.
La popolazione è beIla, dai tratti molto europei. Non rari i bambini con i capelli rossi le lentiggini. La gente è estremamente gentile e molto più socievole che nel resto del Paklstan. Le donne ci salutano e parlano liberamente con noi. Musulmani anche loro, appartengono alla setta degli lsmaeliti di Karim Aga Khan. Dappertutto si vedono interventi- dell’Aga : dall’elicottero all’ospedale, e alle jeep, alle scuole. Andiamo a vedere il castello di Baltit.
E’ una costruzione che risale a 700 anni fa e ha sicuramente una forte impronta buddista. Appollaiato su una balza di roccia sopra aI villaggio con a]le spalle uno strapiombo e più in là i due picchi del ghiacciaio dell’Ultar. è una meraviglia di legno intarsiato, di piccole camere esagonali dai vetri colorati e dalle poltroncine ricoperte da una sdrucita tappezzeria, di fughe di stanze dal pavimento di terra battuta in cui si aprono botole o pertugi. In una deliziosa stanzetta con vista sulla valle [il soggiorno?) è teneramente incorniciato un progetto d’architetti per un nuovo palazzo reale: stile albergo moderno, di cemento basso e imbiancato, con lussuosa auto davanti. Miami Beach. Non so fino a quando la reggia è stata abitata; ora ce n’è una nuova, a valle, moderna, rna per fortuna non proprio come il progetto.
A1 ritorno Mujib ci invita a prendere il tè a casa sua a Baltit. Ci togliamo le scarpe per entrare e ci sediamo per terra, sui tappeti e cuscini, Tutta la casa è ricoperta di tappeti, Arriva la moglie che stende per terra una tovaglia e ci serve tè al gelsomino con dello squisito e croccante pane Hunza (di frumento integrale? ) e poi del tè salato al burro, che bontà! La moglie e la suocera dl Mujib si siedono con noi, anche se in silenzio perché non parlano inglese. Divoro il pane che puccio nel tè salato. Felicità. Son felice di sapere che Ia mia evidente ingordigia gli fa piacere. Manca solo il ruttino. In albergo facciamo i bagagli per Ia spedizione all’Ultar dell’indomani e ceniamo: riso con curry e pollo e albicocche che mi hanno già fatto un terribile effetto [ne avrò mangiate cinquanta !) All’improvviso, rullano i tamburi, spiattano i piatti, suonano le trombe e ci fracassa i timpani 1″ più deliziosa musica per percussionisti che abbiamo mai sentito dal Ladakh a qui. Ah, la deliziosa musica tibetana! perché è tibetana, altro che nenie pakistane! Quei piatti, quei tamburi che rimbombano nelle orecchie e quelle trombe che fanno vibrare il cuore! Arrivano anche dei danzatori: vestiti del loro solito camicione, fanno però una danza probabilmente di origine guerriera, spiccando grandi salti e brandendo immaginarie spade. Il cielo è fumante di stelle e l’aria fresca. Pace. Prima di dormire, caccia alle mosche in camera da letto. Alla fine del raid, camminiamo su un tappeto di mosche morte.
Sveglia aIle 6.30, partiamo alle 8: Michele, io, Sylvle ed Evelyne (le due ragazze francesl di Gilgit), Mujib e tre portatori. Io porto le macchine fotografiche e basta (Iusso da rlcchi), La gola dove scende I’Ultar, in basso, è stretta e selvaggia. Il- terreno è accidentato, talora sabbloso e scivoloso. L’aria vicino al fiume è fresca, quasi fredda, ma il sole picchia e lontano dal fiume si sente già iI caldo.
Ci sono molte sorgenti d’acqua limpidissima e fresca: beviamo tantissimo. Alla nostra sinistra si innalzano dei paretoni: placche lisce di 200/300 metri perfettamente verticali che farebbero la gioia di un freeclimber.
Tutta la parete della montagna da questo lato è un’unica placconata a strapiombo. Davanti appaiono i picchi ghiacciati dell’Ultar – e sl sentono le seraccate che precipitano. Dopo 800 mt di dislivello ci fermiamo (è solo mezzogiorno) a 3200 mt. La guida insiste per non andare oltre: qui è un perfetto campo-base,
con acqua di sorgente, prato pianeggiante e una shepherd’s hut dove bevo due scodelle di ottimo lassi. Primi problemi con i portatori: gli abbiamo detto di comprarsi da mangiare e dato i soldi per farlo, ma hanno preso solo pane e usano il nostro tè, zucchero e latte in polvere-ma noi ne abbiamo giusto per noi. Poi Evelyne e Sylvie cominciano a dire che vorrebbero tornare indietro e andare a fare il campo base del Nanga Parbat con una spedizione Giap perché pensano che qui non vedranno niente, in effetti la guida fa delle difficoltà e dice che non si può andare tanto sul ghiacciaio, che è pericoloso. (2020 in effetti nessuno dei due portatori né Mujib hanno ramponi)
Mickey va con Mujib alla cascata 300 mt più in su.
io mi addormento sotto Ia tenda, con un pò di mal di testa. Pecore pascolano nei nostri sacchi, Su alla baita i pastori fanno il burro riempiendo di latte una pelle di capra chiusa con i facci alle zampe e aI collo, e tenendola per le estremità se la dondolano sulle ginocchia per un’ora. La baita è piena di mosche e cacche seccate di vacca per accendere iI fuoco. Evelyne e Sylvie mi insegnano la frugalità, Af loro confronto, sembriamo i classici americani, quelli che hanno sempre tutto e sempre il meglio. Non hanno neanche una tenda completa ma solo il sovratelo (certo che non le vedo sulla. neve); niente piIe, né piumino, né scarponi, né attrezzatura da alta quota. Una camicia, un paio di pantaloni. Tutto ridotto all’,osso, certo non è comodo ed è limitante in un sacco di cose; ma certe volte mi sembra di portarmi Ia casa appresso. Tutto è relativo. Altri problemi con i portatori. Adesso volevano 40 rs per comprare mezzo chilo di burro dai pastori. Dicono che è una regola di tutte Ie spedizioni che vengono qui’. Sono dei mungitori di spedizioni, o almeno, le provano tutte.
Ultar, 1° campo Mercoledi 17/7
Notte dl pioggia, Ad un certo punto Mujib si è infilato nella nostra tenda; dove avevamo anche tutti i sacchi, con tutto il suo odore di capra.
Sveglla alle 6,30. Alle 7.30 riprende a piovere. La seraccata continua a scaricare. Anche ieri sera e tutta notte si è sentito il rumore dei seracchi che precipitano. II ghiaccialo è estremamente pericoloso ed è un grosso rischio anche attraversarlo. Le cime sono ancora inviolate – ci ha provato senza successo una spedizione polacca poco tempo fa.
Alle nove smette di piovere e partiamo, lasciando giù tenda bagagli e portatori: faremo una gita in giornata. Dopo un’ora abbiamo fatto 400 mt di dislivello (ci siamo portati l’altimetro). Mujib dice che ci vogliono altre quattro ore per arrivare al colle. Sylvie e Evelyne rinunciano e tornano giù. Proseguiamo. La salita si fa sempre più ripida; non c’è sentiero, e prendiamo a zig zag la linea massima pendenza. Fino a 38O0 mt incontriamo ruscelli e sorgenti, poi non c’è più niente. Una sporca lingua di ghiaccio arriva fino al campo, La zona è verdeggiante: non alberi, ma erba soffice e tanti fiori meravigliosi, ranuncoli gialli e arancioni, campanule blu, fiori bianchi e rossi strani, rare stelle alpine. I fiori sono profumatissimi: uno viola odora vagamente di mughetto.
Mujib mi indica delle piante medicinali per gli occhi, per le gengive. Caprette e pecore dovunque : le capre hanno una tendenza a stare in c ima ai massi e contemplare il panorama. i! Mujib vede col binocolo lontani stambecchi che solo a fatica Michele distingue: ha una vista eccezionale. Si incontrano tane di volpi. Uno yak color crema si lascia avvicinare fintanto da toccargli il muso -ma non osiamo- poi si rotola sulla schiena zampe all’aria, come un cane! per grattarsi.
A 4000 rnt avanziamo lentamente: Ie gambe sono buone e iI fiato alche, ma la stanchezza della quota si fa sentire. Mi inizia un pò di mal di testa’ Voli di corvi si incrociano nell’aria. Un bailamme di pi-pi-pio-pio e altri versi che sembrano di gabbiano (se chiudo gli occhi mi sembra di essere aI mare)’ Sembra che qui a Hunza ci sia Ia maggior concentrazione di uccelli di tutta l’Himalaya. Un’aquila, che ha invaso iI territorio dei corvi, viene ripetutamente e inutilmente attaccata. Il sole, apparso fin dalle dieci, picchia. Ci fermiamo ogni quindici minuti. Non serve che mi dica: questa volta aspetto almeno mezz’ora prima di fermarmi. Dopo un quarto d’ora non ce Ia facciamo più Alle due, dopo cinque ore di marcia, arriviamo aI colle a 4400 metri esatti, segna l’altimetro, cioè 12OO metri di dislivello, Ne valeva Ia pena.
Da qui si vede tutta l’immensa catena di montagne, dal Rakaposhi (7788 mt) al Diran (7273) , Malubiting (7459) e Yengutz Har (7021), e per nostra gioia iI cielo è limpidissimo.
Si vede, anche, lunghissimo, tutto iI ghiacciaio dell’Hispar. Non ci si rende conto, se non ragionando, dell’impressionante altezza di quelle montagne, anche perché, oltre al fatto di essere lontane, sono anche per metà nascoste da nude montagne di roccia di 4000-5000 mt che ne interrompono lo slancio. Molto più impressionante e cupo ci è risultato il ghiacciaio dell’Ultar ora alle nostre spalle, e che abbiamo avuto davanti per una buona parte della salita, con i suoi balconi e giardini pensili di ghiaccio verde, Ia sua valle strettissima, e Ia cima persa in un cappuccio di nuvolette. (v. fofo) oggi non riuscirei a fare un metro di più, ma sono dispiaciuta per non aver portato tenda e sacco a pelo; avremmo potuto salire almeno fino a 5OOO metri domani: fin lì si va ancora in maglietta e water in-out non c’è assolutamente neve ma soro roccia, spesso marcia.
Torniamo giù. Mujib, che mi ricorda nei tratti Misha, mi riempie i capelli di fiori e mi fa i massaggi al polpacci contratti. Il mal di testa si fa sempre più forte. La discesa è interminabile ma non brutta: due ore e mezza. Purtroppo arrivo al campo con un mal di testa che neanche una Nisidina dissipa. Bevo lassi da una dubbia scodella e ci facciamo uno squisito porridge salato. Mia nonna sarebbe felice, da bambina detestavo tanto il suo Quaker! Il ghiacciaio dell’Ultar continua a scaricare. I rombi arrivano, uno dietro l’altro. Ancora pioggia di notte. Dormiamo male.
Karimabad, Giovedì 18/7
Pioggerellina. Montagne coperte. Scendiamo. Al Top Inn ritroviamo le francesi e incontriamo una spedizione italiana guidata da Pinelli che Michele ha conosciuto a Milano ( ma è già tornato in Italia ) e di cui fanno parte due simpatiche guide di Cortina e il ministro Giacomelli; c’è anche Ivana, e due persone: Donatella e Roberto che lavorano per il Ministero degli Esteri a Peshawar. La spedizione ha compiuto l’attraversamento dei ghiacciai Hispar-Biafo che assicurano essere molto bello e interessante, moderatamente faticoso. 14 giorni.
La banca di Karimabad non cambia soldi stranieri. Siamo giusto al pelo. Questo e altre constatazioni ci inducono a ritornare a Gilgit e partire per Skardu: vogliamo vedere un po’ del Baltoro.
Giornata di riposo, doccia e shampoo gelati, rifacimento sacchi e ingollamento, per quanto possibile, di proteine. Odio il montone e la sera mangio il pollo o piuttosto le sue ossa. Sto male e non capisco cosa ho: dolori diffusi, un senso di costrizione all’epigastrio che passa e poi ritorna. Stanchezza? Tifo?
Ho anche un po’ male alla testa. La giornata torna, bella il nostro Ultar è imponente e dalla valle si vede bene il Rakaposhi. È una bella valle ma quattro montagnozzi (che peraltro saranno alti come il Monte Bianco) ci ostruiscono un po’ la vista. La valle è coltivata a grano con i campi che spiccano gialli in mezzo al verde ed ha tantissimi giardini di albicocche (Mujib stesso ne ha due e ci porta ancora dolcissime albicocche che a confronto le più dolci di Milano sembrano sapone) Come ho detto, gli abitanti qui sono molto più liberi che nel resto del Pakistan, del resto è una razza completamente diversa e anche la loro lingua il barukashi non ha nulla a che fare con l’Urdu che è la lingua ufficiale del Pakistan. Nessuna donna ha il purda, al massimo le più bigotte si tengono il velo sulla bocca o lo tengono stretto tra i denti. Sono anche più allegramente vestite, con dei colori sgargianti: viola, arancione, verde smeraldo e portano sulla testa un piccolo fez ricamato cui si appoggia il velo. I bambini oltre chiederci infallibile “one pen” ci offrono dei granati in vendita: pare ce ne siano parecchi tra i monti, ma noi pur cercandoli abbiamo trovato solo tormaline nere, mica bianca e pirite. Purtroppo ci manca qualcosa: qui la civiltà è agricola, i villaggi sono miseri, l’architettura inesistente: case di fango organizzate in villaggi più o meno come nella preistoria. A parte il castello di Baltit non abbiamo visto altri esempi di civiltà passate. Restano le montagne, spettacolo unico.
Gilgit, Venerdì 19/7
Notte di tregenda. Pulci o zanzare? Tra questo e il fatto che scambio il giorno con la notte, come i neonati, non ho chiuso occhio fino alle due. Sveglia alle 4.30. Usciti dalla finestra perché la serratura della porta si era rotta. Il bus non arriva perché? Perché il suo guidatore sta bevendo il tè al Tea-shop. Qui è tutto così: molto umano ma anche poco affidabile. Se non c’è posto ci si pigia (siamo in 18) se no si sale sul tetto ; se si ha sete o si vuol far pipì,il bus si ferma ( Una volta per ognuno dei 18 componenti) A Gilgit il miniautobus di linea ci porta all’Hunza Inn ma siccome è fuori dal suo percorso ci chiede 10 volte la tariffa È la regola! Ancora un viaggio disastroso ma di sole tre ore mezza (al ritorno andrò ad Abano a fare i fanghi). Paesaggi brulle, montagne nude, valli immense con lunghissime morene glaciali. L’Indo corre in un canyon di sabbia. Canaletti tortuosi e improbabili scavati fianco delle montagne irrigano qualche raro prato; visti da lontano sembrano sentieri di capre. Il cielo è nuvoloso, non fa caldo.
A Gilgit adorabile Hunza Inn, lussuoso dopo l’Hill Top, con una bellissima moquette a disegni cachemire in camera, cameretta guardaroba, grande bagno e veranda privata, porta finestra sul giardino. Déjeuner sur l’herbe (con poltroncine però) uno dei piaceri della vita. Riposo. Poi giro del bazar che è enorme, e più ci si allontana dagli alberghi più i negozi sono puliti e la merce di miglior fattura.
Un’invitante pasticceria ci stimola ad assaggiare dolci locali: buoni, alcuni con troppo zucchero e mandorle e sempre troppo colorati. Negozio pulito, naturalmente relativamente al paese: le mosche ci sono dappertutto la fogna corre in rigagnoli davanti ai negozi, mucchi di albicocche secche giacciono in vendita per terra tra il calpestio dei passanti.
Diarrea terribile nel pomeriggio! Al Park Hotel riusciamo a mangiare quasi europeo ma perché il Grilled Chicken deve avere sopra il ketchup? Assistiamo ad un corteo di matrimonio. Sfilano jeep e automobili stracariche di soli uomini che, armati di fucili e rivoltelle, sparano per aria, poi compare tutta inghirlandata, compreso il parabrezza di festoni natalizi, la macchina dello sposo, idem la macchina della sposa con la madre: uniche donne in tutto il corteo.
Gilgit, Sabato 20/7
Volevamo risposare un po’! Tra diarrea, viaggi, campeggi, siamo a pezzi! io ho ancora dolori diffusi al torace (Tight Chest) che cos’è? E molto male alla pancia. Per fortuna ancora pollo semi-occidentale al Park Hotel. Pomeriggio al bazar a fare foto e al ponte sospeso: il più lungo sull’Indo.
Caldo torrido. Compro per l’equivalente di un dollaro un delizioso cappello alla Indiana Jones ma con la falda meno larga, altri mango juices, altri cakes. Stiamo ingrassando! domani alle cinque si parte per Skardu.
Skardu, (Baltistan), Domenica 21/7
La strada per Skardu è bloccata, penso da una frana. é successo lo stesso ieri. Quelli del Booking Office ci avevano detto che ci avrebbero chiamato quando la strada fosse stata aperta. Nel frattempo mi è venuta la peggior diarrea che abbia mai avuto. Gusto schifoso in bocca, rutti, dolori addominali e feci acquose; non posso nemmeno uscire dalla stanza. In ogni caso è terribilmente caldo fuori. Oggi faccio la dieta liquida: solo tè. Cosa sarà: salmonella o semplicemente le spezie e il curry che mettono dappertutto? Se non riusciamo a partire domani per Skardu, rinunceremo ad andarci e cercheremo di fare il trek per il Rakaposhi. Sarebbe un peccato comunque ,ma così vanno le cose in questo paese. Non sei mai sicuro che riuscirai mai a prendere il tuo volo o il tuo bus qualsiasi altra cosa. Puoi aspettare giorni nei posti meno interessanti: non c’è nulla da fare a Gilgit!
All’una ci avvertono che alle due si parte, un’ora di attesa al sole e alle tre si va. Siamo in 17+2 sul tetto, più i bagagli in un Ford Transit. Michele io siamo davanti col guidatore, un altro ospite si è piazzato sul freno a mano. Caldo micidiale. La strada (è stata aperta nel 1978, prima c’era solo l’aereo, quando partiva) corre nella gola dell’Indo. Nelle curve il Transit ondeggia paurosamente e il guidatore ride. Ai nostri lati montagne inospitali assolutamente aride, di roccia marcia e pericolante, frane ad ogni passo, e luoghi di abituali di frane segnalate con cartelli: dopo il passaggio pericoloso un cartello dice Relax. A uno di questi cartelli di relax una frana ha quasi bloccato la strada… Rare oasi verdi dove scendono cascatelle e dove un paziente (e pazzo) contadino ha irrigato il suolo e costruito terrazzamenti. 240 km di strada fatta così, in otto ore e mezzo. Ogni tanto si intravvede qualche cima nevosa. Su una jeep in quattro sarebbe un bel viaggio. in Transit, in 17, con la solita musica pakistana nelle orecchie per tutto il viaggio è quasi terribile. A 60 km da Skardu ci vogliono impedire di proseguire: la strada è inagibile. Battibecchi tra guidatore, passeggeri e operai (polizia?) poi ci lasciano passare. In effetti la strada è in condizioni disastrose: ad un certo punto una frana l’ha praticamente ostruita tutti i passeggeri urlano per scendere: S’arrangi il guidatore… Ce la fa! Viene notte. Improvvisamente in curva i fari si spengono: panico, frenata. Era un falso contatto. A 50 km da Skardu ci fermiamo per la cena: bevo il tè e giaccio sui lettini di vimini a contemplare le stelle: una stellata pazzesca. La via Lattea pulviscolosissima. Stelle cadenti.Notte al K2 motel: caro (225 rupie) e misero. Domani tenda
Skardu, Lunedì 22/7
Skardu: povera. In un’ampia valle, arida, punteggiata, da dune di sabbia. Nel pomeriggio viene vento (il temporale delle cinque è un classico ma non sempre piove, si alza un vento che può essere molto forte, anche sollevare una tempesta di sabbia. Talora scendono due goccioloni come se fossero spremuti da una nuvola arida quanto la terra ) È un posto fuori dal mondo. Ce l’aspettavamo diverso: è l’ultimo paese dov’è possibile approvvigionarsi prima di intraprendere una spedizione, il luogo di raccolta di alpinisti e trekkers di tutto il mondo. Ma gli alpinisti portano la loro roba da casa, fino all’ultimo grammo di zucchero, e i trekkers si accontentano di poco. Il bazar non offre nulla, persino poco dei generi di prima necessità: tutto costa molto caro non c’è una sola cartolina delle montagne, con il K2 a due passi. Compriamo un tappetino al bazar.
All’albergo incontriamo due svizzeri (Jean Troillet e Pierre Morand) di ritorno dal K2 e una tedesca di Mainz: Meggy, vanno al Satpara Lake e ci aggreghiamo. Il lago è molto bello e d’un azzurro cupo ma l’acqua è freddissima (12°?) dopo un’ora di tentativi faccio un rapido bagno. Michele si ammolla le gambe. Maggie ha il bikini e m’impresta la sua canottiera e i suoi shorts da atletica (molto comodi da portare in viaggio pesano poco non si stropicciano ricordare per prossima volta) lei se ne infischia dei musulmani e viaggia tranquillamente con un’amica con simili scollate canottiere. Naturalmente frotte di pakistani a guardare.
Quando ero a Gilgit avevo chiesto ad Ali Shah che cosa ne pensavano i pakistani dell’abbigliamento e dei costumi più liberi di noi occidentali; secondo lui se non siamo vestiti in maniera provocante (Shorts, scollature) non ne pensano che bene e ci invidiano la nostra libertà. Può essere così per le persone un po’ più colte ma sono sicura che l’analfabeta che si inginocchia cinque volte al giorno verso la Mecca ci disprezza: glielo leggo nello sguardo.
Contattiamo la guida per il nostro trek: pretende 250 rupie al giorno. Una follia! Prenderemo solo i portatori, la guida ci farà avere una cartina dettagliata del luogo e noi ci occuperemo delle razioni per i portatori.
la lista ufficiale per loro è
Ata (farina) 22 once al giorno per portatore
Ghee (burro) 2 once al giorno per portatore
sugar 2 once al giorno per portatore
Dal 2 once al giorno a portatore
Milk Powder 2 once al giorno a portatore
Salt 1 oncia per sei uomini
onion 1 oncia per 10 uomini
sigarette 10 al giorno per portatore
1 scatola di fiammiferi per una settimana per ogni portatore
tè nero mezza oncia per due persone al giorno
carne 4 once al giorno per portatore
Chili, curry
2 m di coperta di plastica (per due portatori)
Pochi americani da queste parti. Quasi solo europei, Middle Europe. Da ricordare: Skardu è carissima: la coca costa 8 Rupie invece di 4, una cena 55 rupie per ogni persona invece di 52 in due a Gilgit (parentesi ed era un mezzo pollo, qui due pezzettini di montone)
Skardu, Martedì 23/7
Notte buonissima. Fa caldo. Tenda. Spese nel vecchio bazar (cibo per i portatori ) Xenofobia? Intransigenza religiosa? Alcuni commercianti non ci rispondono neanche, altri sono gentili e mi portano addirittura uno sgabello per sedermi. Compriamo atta e ghee che ci infilano in un sacchetto di cellophane poi compriamo, a caro prezzo, uno straccio sudicio cucito a sacco per mettere le provviste. Il caldo stanca. Ci dirigiamo al Tourist Cottage Hotel per una finta Fanta tiepida. Non lasciamoci ingannare dal nome. I muri scrostati rivelano il fango e la paglia con cui sono fatti; gli sporchi tavolini di plastica rotta sono collosi di bibite zuccherate. Non ci danno ( meglio ) bicchieri né cannucce. Però ci sono due ventilatori.
Se verremo di nuovo da queste parti (con un excess luggage o cargo) ci porteremo dall’Italia tutta la roba da mangiare come hanno fatto gli svizzeri che hanno poi lasciato al Campo Base del K2 30 chili di cioccolato (pare che alle alte quote il gusto per i cibi venga completamente sovvertito e si faccia fatica a mangiare ghiottonerie di cui qui si va pazzi mentre si mangia con avidità quello che si è sempre disprezzato la trippa?) così lo stomaco sarà posto. Ho sempre crampi. Pomeriggio di fuoco. Per fortuna l’albergo ha una spare room per campeggiatori accaldati con letti, poltrone e una splendida sala da bagno. Noi siamo attorniati da spedizioni. Michele disperato. Il resto del team svizzero del K2 è ritornato indietro, una donna tra di loro. Per Michele questo è come guardare delle enormi barche e non avere il permesso non di veleggiare ma nemmeno di salire a bordo.
Pomeriggio tardi: impacchettamento delle cose per il trek: vogliamo essere il più leggeri possibili. Evelyne ha la febbre alta e i brividi come un frullatore. A cena discorso del capo del PTDC che legge un messaggio di auguri del Presidente e del Primo Ministro indirizzato agli scalatori. E’ dei tempi di Messner che il lato pakistano del K2 non veniva scalato. I pakistani ne sono fierissimi come se l’avessero scalato loro invece, che io sappia, nessun pakistano è mai salito su un 8000 e soprattutto non c’è mai stata nessuna spedizione pakistana qui.
Stasera Jean ci ha annunciato che un alpinista francese che arrampicava con loro ( era con le Escoffier) è morto assiderato. Lo dice senza alcuna commozione, forse come me quando raccontò a Michele di qualche bambino dell’ospedale che è morto. Per esorcizzare le paure.
Dassu, mercoledì 24/7 Alt. 2500 m
Sveglia alle 4.15. Evelyne Graves ha 38,6° di febbre e ancora diarrea profusa. Partiamo da soli. La strada è sconnessa ma passa attraverso una valle amplissima, come non se ne vedono dalle nostre parti, fiancheggiata da alte montagne. Alla nostra sinistra (destra orografica) scorre il Braldu. Il paesaggio è inizialmente desertico interrotto da dune di sabbia e la strada è più che altro una pista nella sabbia bianca e finissima.
Più avanti passa tra fertili oasi alberate, dove una miriade di cuculi silenziosi ci tagliano la strada. In altri punti ci tocca attraversare guadi che a quest’ora sono ancora passabili; l’ultimo però si rivela troppo alto per la Jeep e dobbiamo costruire una strada con i massi per poter passare.
Dopo quattro ore siamo a Dassu: ottocento abitanti e qualche rara casa (le altre stanno sulle colline) Siamo contattati da un antipatico ufficiale della polizia, o sedicente tale, che si incarica di trovarci i portatori. Cominciano i problemi: vogliono l’equipaggiamento da alta quota, scarpe, calze e occhiali. La guida a Skardu ci aveva detto che i portatori per il trek che volevamo fare noi non avrebbero avuto bisogno di queste cose e difatti neanche noi le abbiamo portate. Non ho ancora capito se tutte queste contrattazioni servono per passare il tempo. È certo che questa gente è molto povera e viziata dai miraggi delle grosse spedizioni che gli fanno guadagnare molto di più e non si accontentano di quello che due poveri trekkers possono offrire. E non è solo una questione di soldi: le spedizioni regalano equipaggiamenti, cibo avanzato (container interi) scialacquano come le burocrazie, e poi Jean mi veniva dire che non bisogna regalare le caramelle ai bambini di qui per non rovinare lo spirito di questa gente…!
Se torneremo ancora da queste parti dev’essere per qualcosa di grosso: una spedizione, qualche cima del Baltoro, la traversata Hispar-Biafo… ma ben organizzati e sponsorizzati. Semplici trek qui sono difficili a meno di non avere tanto tempo a disposizione: un mese è poco. Sono le 11.50 ma stiamo contrattando solo dalle 10.20, credo che sia la loro maniera il passare il tempo, infatti noi abbiamo la faccia sempre più rannuvolata e loro ridono. Ore 12.35 fine della contrattazione. Con un accordo scritto firmato dai portatori che non ci daranno noie supplementari. Gli daremo 330 rupie in più di quelle previste dalla legge cioè L. 41.000 in più: totale del trek L. 262.000, per ora!
Ci fermiamo alla Rest House dove arriva dopo una mezz’ora Escoffier e un suo amico , tal Schafter. Escoffier è qui da maggio e ha già fatto Hidden Peak, Broad Peak e K2. é giovane e biondo , abbronzato, muscoloso bello e simpatico. Michele, il mio Michele chiacchierone, sempre felice di incontrare alpinisti, di parlare con loro, è ammutolito dalla riverenza. Balbetta due parole, guarda ammirato, tace. Escoffier e Schafter raccontano della morte del loro compagno, Lacroix con lo stesso distacco con cui ne aveva parlato Jean. Eppure Lacroix era amico di Escoffier. Morte dolce, dicono. Si ma a vent’anni? Non si può parlare di questa cosa in montagna. Troppe angosce dietro quella indifferenza. La nostra nuova guida, Fida Ali son Haji Mussa Dass (qui i cognomi non esistono ma il patronimico e il villaggio di provenienza) viene a prenderci e ci accompagna a casa sua.Sono le due. Si parte sotto un sole infuocato, la casa è in collina. Timorosi di pulci e affini, chiediamo di piazzare la tenda in giardino, con la scusa che Michele è troppo lungo per i letti locali, Il terreno è però pieno di polvere e formiche e l’aria di nugoli di mosche. Poi, peggio delle mosche arrivano nugoli di bambini a dire insistenti “hello”, offrire tormaline e acquamarine, o semplicemente guardare , comodamente seduti davanti a noi, come al cinema, tutto quello che facciamo; poi arrivano mamme e nonne a chiedere medicine per cuore, polmoni, occhi, seni, tutto insieme All’inizio del trek ho detto alle guide che lavoro anch’io nel cinema È inutile che cerchi di fare il medico con quelle poche medicine (bastano per noi ) che abbiamo inoltre quasi tutti questi sono casi cronici. Bisognerebbe seguirli: l’antibiotico, l’aspirina, datti una tantum, sono inutili se c’è qualcosa di grave e acuto cercherò di occuparmene se no no! Incredibile che il loro governo non faccia assolutamente niente dal punto di vista igienico e sanitario. Da quando finisce la strada asfaltata pare finire anche il mondo. Sono sporca e polverosa e mi domando se riuscirò mai a fare pipì con tutti quelli che mi guardano
Giovedì, 25/7 Dopo Chag-po, alt. 2600 mt
Meno male che la sveglia alle 3.25 non ha suonato così ci siamo alzati alle 4.10. Ieri sera avevamo fatto tardi ( 21.30 ) perché eravamo andati a bere il tè con chapati nella “villa” con annessa stalla e splendida vista sul Braldu di Ari. Ora ci troviamo in località Yang Sapa a prendere il tè : un cerchio di sassi per terra pomposamente definito ristorante.
Abbiamo attraversato il fiume su un “ponte” a carrucola in una cassetta poco più grande di quelle della frutta, a 5 m di altezza sul fiume ribollente. Divertente, non voglio sapere quanto pericoloso, potrei spaventarmi.
Incontriamo Boivin che scende dal Baltoro con sci e il deltaplano (sceso in delta dal G2 al Campo Base.) Alberto Re con un gruppo di italiani che hanno fatto il G2; ci viene riferito che anche Casarotto è al G2. Sembra di essere a Hollywood. La spedizione di Re e Jaccoux per Altitudes Extremes è composta, secondo Michele, da “pellegrini paganti”. (2020 Erano le prime spedizioni commerciali) Ne incontriamo giustappunto uno: tale Bubi di Parma, felicissimo per essere arrivato in vetta. Massacrante, dice, più tardi però incontriamo l’altra faccia della medaglia: due francesi che ci raccontano tutti i retroscena delle spedizioni: un cliente di Jaccoux morto per sfinimento, un giapponese travolto e portato via da una valanga, più Lacroix fanno tre morti nella stagione, poi tre edemi cerebrali, tre edemi polmonari, un’emorragia gastrica da stress e vari congelamenti (un italiano, tre svizzeri e altri) di cui almeno due assai gravi, e vari incidenti minori. In quanto a me sono riuscita stamattina a franare con un muretto e a slogarmi una caviglia. Prontamente soccorsa da me stessa sono riuscita finora a camminare discretamente bene ma ora che mi sono fermata vedo le stelle. Abbiamo già passato due guadi (al secondo ho optato per le scarpe: l’acqua è troppo fredda e i sassi troppo a punta). E ho trovato comodissimo un alpenstock di salice che Michele mi ha fatto. Per oggi la strada è in piano. I portatori si fermano a riposare ogni 15 minuti per 1-2 minuti. Alle 12 dopo sei ore di marcia molto tranquilla ci fermiamo per un porridge. Piove, come ha fatto con intermittenza da stamattina… per fortuna perché così fa fresco purché non nevichi sullo Skoro-la dove andiamo.
Ci riposiamo presso una casa: un tetto di tronchi e dei muretti di riparo. Per terra sabbia, paglia, un fuoco di sterpi. Attingiamo acqua da un canale fangoso. Ali e l’altro portatore, un ragazzino, mangiano per conto loro. Alì ha 24 anni una moglie e due figli. Gli occhi a mandorla da mongolo (parte dei Baltì è di origine tibetana e la lingua assomiglia al tibetano o piuttosto si pronuncia come il tibetano si scrive) un bellissimo sorriso e una bella faccia simpatica. Sembra mingherlino ha le gambe magre e non gli affideresti certo un carico pesante; in effetti fa di tutto per non portare grossi pesi affidandoli al compagno, ma più per pigrizia che per debolezza. L’altro è giovane 17-18 anni, l’aria dolce e gentile. Tiro fuori dal sacco le medicine (cerco l’antinfiammatorio per la mia caviglia) vengono a dirmi che hanno male di stomaco tutti e due e vogliono la medicina… sarà ma mi sembra che la vogliano come vogliono le caramelle o l’equipaggiamento di montagna. Tutti quelli che incontriamo ci chiedono medicine: mi fa disperare un vecchietto curvo per l’artrosi, praticamente gobbo, che viene a dire che ha mal di schiena. Spiritoso! Proseguiamo sotto un diluvio, il panorama è sempre uguale un’ampia valle, arida solcata dal Braldu interrotta da rare oasi. Talora ci sovrastano paretoni di granito liscio altre volte terra franosa. In alto nevica. Incontriamo un americano che zoppica, i medici gli hanno detto che ha l’appendicite. Sta cercando di avvisare un elicottero nel caso che passi, ha i razzi, intanto cammina. Dopo Chag-po di la dal fiume piazziamo il campo, ci infiliamo nella nostra adorata tendina e portatori e loro amici si siedono davanti per guardare come con gli orsi allo zoo. La mia caviglia e un po’ gonfia. Fa fresco. Bello.
Venerdì,26/7 Tho – Alt.2810 mt
Sveglia alle 4,20 partenza un’ora dopo. La strada sale dal 2600 a 3200 m ripida. In certi punti il sentiero è proprio a picco sul fiume 600 m più sotto.
Due volte dobbiamo fare due tratti con difficoltà di almeno secondo grado molto esposti. Il terreno però è morbido e terroso e solo a tratti pietraie e frane rendono difficile il cammino. Arrivati in cima si picchia nuovamente giù per un sentiero ancora più ripido e abbastanza pericoloso un po’ simile alla Cengia dei Camosci del Piz Ciavazes in Dolomiti, e si ritorna a livello del fiume. Continuano saliscendi per buona parte del percorso. Sono passate cinque ore e siamo a metà strada quando arriviamo ad un fiume che dobbiamo guadare, il fiume però è in piena, ribollente e rabbioso d’acqua gelata che viene dal ghiacciaio. Forse la pioggia di ieri l’ha ingrossato. Il portatore più giovane prova ad attraversarlo ma deve tornare indietro quando l’acqua gli arriva alla vita. La corrente è fortissima e 100 m più a valle il fiume sfocia nel Braldu con fragore di cascata. Cerchiamo invano un guado anche più a monte: non c’è un punto tranquillo dove l’acqua sia un po’ più bassa. Alla fine ci rassegniamo: aspetteremo le tre di notte quando l’acqua è più bassa. Perderemo così un giorno per la gioia dei portatori che non erano affatto disposti ad arrivare in giornata a Kurfè e già avevano discusso con noi a questo proposito. Sono degli sfaticati: non fanno che lamentarsi per il peso che è molto al di sotto di quello regolamentare (dovrebbero portare 25 chili a testa ma ne porteranno 30 in due) non fanno che chiedere biscotti e marmellata sostenendo di aver fame quando gli accordi erano che fino a Kurfè dovevano provvedere essi stessi al loro sostentamento (ed erano stati pagati in più per comprarsi vivere) e del resto hanno il loro chapati e ghee. Ci chiedono la borraccia perché non ce l’hanno dopo averci detto che l’avevano, la pentola perché non ce l’hanno…
e Michele (vedi sopra) ha con loro delle discussioni interminabili che io non sarei in grado di sostenere perché per la rabbia vorrei mandarli a quel paese e portarmi il sacco da sola, e gli spiega pazientemente o quasi che non siamo ricchi come le vere spedizioni, che non possiamo regalargli la nostra roba che a noi costa molto cara né dargli i nostri biscotti che abbiamo veramente contati giusti giusti per noi.
Pomeriggio a leggere tra i sassi osservando con invidia il verde campo di là dalla riva. Qui ci sono solo sassi e non c’è neanche il posto per mettere la tenda nel raggio di 1 km. È tutta una pietraia sotto a pareti ripidissime. Abbiamo visto stamani un 6000 fattibile per una morbida cresta di neve, non aguzza come quasi tutte le montagne di qui. Riusciamo a sistemare la tenda priva del telo esterno vicino al fiume e prepariamo la cena. L’acqua è puro fango, fresco.
Monjò, abato 27/7 Alt 3050 mt
Incubi tutta la notte. Il rumore assordante del fiume praticamente nelle orecchie (la tenda e a due passi dall’acqua) e la mia paura di guadarlo hanno fatto sì che abbia sognato tutta la notte di guadare fiumi nuotando com un’elica. Nella mia mente chiamo questo guado Cassandra Crossing perché evoca spiacevolissimi associazioni. La sveglia è alle 3,20 e non è affatto gradita. Nessuna voglia di tirarmi fuori dalla cuccia calda del mio sacco a pelo e infilarmi al buio in una acqua congelata e vorticosa In ogni caso anche a quest’ora il fiume è grosso come ieri: sarebbe un suicidio guadarlo. Di nuova a cuccia, di nuovo in piedi alle 4.40 (e le chiamano vacanze!) Che fare? Michele è fuori di sé per la rabbia perché sostiene che è colpa dei portatori che non hanno voluto stare sulla altra sponda dove invece passano tutte le spedizioni; secondo loro di là è peggio ma la realtà è che non volevano poi attraversare il ponte di corde di Ascole. Anche la guida di Skardu che ci aveva consigliato di non prendere la corda perché non ce n’era bisogno c’i ha messo in un bel pasticcio: la spedizione sembra già arenata qui. Michele si rifiuta di prendere delle decisioni e mi lascia decidere se tornare indietro a Dassu o tentare il guado (ma come?) o altro. Discuto con i portatori: Alì dice che il suo amico sa che più su si può attraversare (ma perché non l’ha detto ieri) saliamo lungo il fianco della montagna e dopo 3/400 m di dislivello arriviamo ad un ponte di corde dondolante.
Michele passa per primo e mi dice di aspettare. Io aspetto, fiduciosa che tirerà fuori qualche cosa di magico dallo zainetto e mi salverà; ma solo all’ultimo momento mi rendo conto con orrore che non ne ha alcuna intenzione sta solo cercando la macchina fotografica! Per non fare figuracce davanti ai portatori e perché non ho scelta, vado.
Odio questi ponti di corde dove il corrimano serve solo per appoggiare la mano e non si riuscirebbe mai a tenersi aggrappati nel caso di un volo :la corda è troppo grossa e l’intreccio di rametti di salice appuntiti (che la forma) impedisce una buona presa. Il piede invece appoggia di traverso su un’altra corda singola e nulla nasconde alla vista ipnotizzata il ribollire del fiume 5 m sotto. Per complicare le cose hanno anche messo un piccolo ramo ad altezza della vita per tenere i corrimani distinti tra di loro che bisogna scavalcare. (vedi foto sopra presa dall’alto) Solo smorfie per il fotografo, del resto anche l’altro portatore ha paura ad attraversare (col carico) e Alì deve tornare indietro e stargli vicino passo-passo.(le prime due foto prese dall’alto) Dopo il ponte saliamo ancora fino a 3000 m per poi ridiscendere in una valle verdissima fitta di campi di orzo e piselli e arriviamo ad un villaggio pulito e ben costruito: Pokorà.
Incontriamo donne all’aspetto più tibetano che pakistano ridenti e allegre. Indossano uno shamir qalwaz a fiori sotto una corta giacchetta oppure pantaloni e tunica simile a una corta chuba bordata di colore diverso e ritenuta sui fianchi da una cintura. Un velo viene tenuto da un berretto ornato di conchiglie, cerchi d’argento e coralli : hanno anche collane di coralli e argento. Ci chiedono tutte insistentemente dei dolci mettendo il dito sulla lingua sporta. Entriamo in una casa, il ristorante del luogo, attrtaverso una scaletta a pioli.è la solita casa senza finestre, ma con un’apertura che da sul tetto al quale si accede da una scala a pioli. Galline pulcini ed esseri umani coabitano allegramente. La casa è spaziosa, in un androne c’è un bel fuoco, per terra ci stendono una coperta. Viene tutto il paese a vederci finché donne e bambini sono cacciati (ma occhieggiano fuori dalla porta) e restiamo con gli uomini.
Ci chiedono medicine per il mal di pancia (ma han tutti mal di pancia qui?). Beviamo tè zuccherato con dentro il burro (alla tibetana); e mangiamo uova sode. Gli uomini chiacchierano, uno fuma un narghilé ricavato da una lattina.
Da Pokorà scendiamo fino al fiume che attraversiamo su un ponte fatto da un unico tronco appoggiato ai due lati su un cumulo di sassi; un altro tronco, all’altezza dell’inguine, serve da corrimano.
Poi risaliamo altri 200 metri ripidi come una scala a pioli e arriviamo ad altri campi e in un altro villaggio, simile al precedente ma più bello architettonicamente. un bambino piccolo con una grave congiuntivite mi commuove e vorrei curarlo. Duplice errore! Ci fanno entrare in un giardino (della scuola?) assicurandoci che ci verrà portato il bambino, e solo quello, come noi abbiamo chiesto. Invece vengono 33 bambini diversi, che non hanno nulla ma vengono portati come malato; e se gli si dice che non hanno la congiuntivite, fanno allora vedere qualche altra inesistente magagna; o comunque hanno la tosse. Il bambino malato non compare. compare invece un sudicio individuo che mi mostra al sua gamba avvolta nel cellophane , sotto il quale c’è un impiastro di una sostanza nera che sembra bitume; un altro simile impiastro lo tiene all’altezza del fegato. Cos’abbia sotto a tutto quel catrame appiccicoso non riesco nemmeno a capirlo. Insistiamo per vedere il bambino che gli ho chiaramente indicato e descritto ma non ce lo portano. Alla fine li mando tutti al diavolo. Intanto i portatori ne hanno approfittato, eclissandosi per un altro tè. Passiamo il tempo comprando e mercanteggiando: tre pattine pakistane (ne abbiamo giusto bisogno, finora abbiamo usato i miei guanti d’alta quota per prendere le pentole calde). é il nostro secondo acquisto; a Pokorà abbiamo comprato per 100 Rs un delizioso paio di babbucce odorose di capra e ancora imbottite di paglia, come usano loro. Da ieri non incontriamo più occidentali, probabilmente perché tutti prendono l’altro lato del fiume. Stamane un bambinetto ci ha visti ed è fuggito piangendo spaventato: siamo l’uomo nero delle sue favole? Continuiamo con un interminabile saliscendi in un deserto torrido, senza un filo d’acqua. Il sole picchia.
A mezzogiorno arriviamo a Sinu dove possiamo riposare un po’ all’ombra. Dopo un po’ Michele e io partiamo e perdiamo i portatori. Dopo 40 minuti d’attesa di là da un altro ponte di corde più facile, li vediamo arrivare: S’erano fermati a prendere il tè. Odio. Dall’oasi di Sinu nuova pietraia ed ennesima risalita fino a 3300 mt (seono le 2 del pomeriggio e si muore dal caldo) dove, a un altrettanto ennesimo rimbrotto di Michele perché mi ero inavvertitamente seduta sulla borraccia, rispondo male e scoppio a piangere. Consolata con 2 caramelle, disintossicata dalle lacrime (piangere fa bene) proseguiamo. Discesa a picco su Kurfè 3030 metri, collegata con Askole da un bruttissimo lungo e oscillante ponte di corde. Ma noi stiamo di qua. Acqua! Ne beviamo almeno un litro a testa più tè al burro e uova sode nella casa amichevole di un contadino, circondati come sempre da tutto il villaggio attonito, donne e bimbi da una parte e uomini dall’altra (ma qui le donne allattano in pubblico).
Sono sempre più tibetani l’architettura e i costumi della gente. La popolazione è eterogenea, um bambino biondo, uno rosso carota, una ragazza con degli incredibili occhi verdi a mandorla, tutti sorridenti e allegri. Siamo morti: avremo fatto finora 26-28 km (partiti alle 4,20 del mattino sono ora le 15 con almeno 1000 metri di dislivello. Ripartiamo per il prossimo villaggio, Monjò (tutte le parole sono tronche qui) a mezz’ora di distanza. Altro guado altra cena con acqua fangosa
Domenica, 28 luglio, dopo Talbrok, 4200 mt
Sveglia alle 4. Alle 4.40 arrivano i nostri portatori – ora 3 perché i nostri non sanno più la strada e così, con la scusa di far portare i nostri sacchetti si fanno portare un po’ di roba loro. Il terzo portatore, Mutik Testè, ci mostra le sue credenziali che dicono che è un uomo allegro, ed è vero. Mutik ci consiglia di prendere un bastone ciascuno – io purtroppo ho dimenticato il mio a Kurfè! Michele me ne rifà due con il pregevolissimo coltellino svizzero, ma non sono tanto buoni e Mutik mi dà il suo, gesto gentile che gli altri non si sono mai sognati di fare. Partiamo alle 5.30. Si sale dolcemente e in due ore si arriva a 3600 mt e si entra a destra in una valle, lasciandosi alle spalle il Biafo. Ad ogni sosta mi stropiccio i muscoli come mi aveva insegnato Mujib e funziona. Ad una sosta i nostri portatori si mettono a mangiare dei fiori rosa con il sale, che dicono sia una buona medicina (che siano fiori di aglio? Dai rutti si direbbe di sì). Mangiano solo chapati, ghee (burro) e tè, ma sembra che si nutrano bene. Non ho capito come fanno, ma riescono sempre a farsi portare lo zaino da qualcun altro, fin dal primo giorno. Ora glieli portano dei ragazzi, di cui uno ha degli occhi color verde prato. Quando hanno gli occhi verdi qui, sono di un verde incredibile. La valle che abbiamo preso, a quota 3700 mt, sembrerebbe una valle alpina se non fosse per gli dzo che pascolano e i 6000 innevati che ci sovrastano. Prima, alle nostre spalle, era apparsa verso il Baltoro la cima di un probabile 8000, il Paw Peak (?). Ora, davanti a noi, si rivelano sempre più cime innevate. La valle è lunghissima e in leggera salita, con in basso il fiume. Abbiamo superato l’alpeggio di Lablok e i suoi pascoli e ci fermiamo per un chapati. Su una pietra piatta vicino al fiume i nostri portatori spandono la farina e la impastano con l’acqua. Poi fanno scaldare delle pietre su un fuoco di arbusti e cacca di dzo e vi avvolgono attorno la pasta e la mettono sul fuoco. Le nostre scatolette di latta (vuote) di piselli e formaggio vengono prese dai portatori: qui non ne hanno! Proseguiamo e arriviamo a Talbrok: è un pascolo. Nel frattempo una quindicina di Balti ci hanno accompagnato, ciascuno portando un pezzo del nostro bagaglio: chi i sacchi, chi i sacchetti, la tenda, e fanno la maratona. Sarà perché siamo acclimatati o perché la salita è stata dolce, non sentiamo assolutamente la quota. Prendiamo il tè in un buio riparo di pietra con il tetto, poi ci riposiamo. Ci sono dei fiori bellissimi, alcuni mai visti. Alle 3 continuiamo, guadando due grossi torrenti e mi si bagnano irrimediabilmente le scarpe ma tanto più tardi pioviscola. Arriviamo ad una piccola radura vicino ad una sorgente, dove campeggiamo. Siamo furiosi con i portatori perché ci prendono la pentola e dobbiamo aspettare per cucinare. A Talbrok qualcuno mi frega il bastone di Mutik! Ne prendiamo un altro. Lui non se la prende, ma a me spiace. Si sono intanto rivelati altri ghiacciai, sembrerebbero facili, e vediamo anche lo Skoro-la: solo 5100 mt, sembra una roba da niente! Ho solo un briciolo di mal di testa. Sono le 5 e le montagne di neve brillano al sole: c’è una parete che sembra la Tour Ronde, solo che è 3 volte più alta. Non siamo per niente stanchi, solo un po’ infreddoliti, anche per via dei piedi bagnati. Tutto il giorno abbiamo camminato in maglietta, poi ho messo i jeans perché ho rotto i pantaloni pakistani. Di giorno non fa freddo, si sta bene e si cammina volentieri. Le mie scarpe però sono così bagnate che vado ad asciugarle al fuoco dei portatori: macché, dopo venti minuti sono appena meno bagnate. Domani attraverserò tutti i guadi a piedi nudi. I portatori si sono rifugiati sotto a un magnifico spiovente di masso simile a una grotta e hanno fatto un fuoco di sterpi circondandolo di bouses (merde) di yak fino a farne una specie di igloo. Fa un sacco di fumo, ma il fuoco è vivacissimo. Cena di riso e piselli, senza ghee perché è diventato troppo rancido, e albicocche secche. Le montagne sono rosse nel tramonto, poi viene una luna di ¾: bianchissima ed enorme.
Lunedì, 29 luglio, Skoroblock, 2360 mt
Sveglia alle 4.30. Dormito benissimo e fatto tanti sogni tra cui uno in cui c’era il gelo a Milano, ed era ghiacciato il laghetto dello zoo allora ho messo il pile. Michele ha dormito male, credo avesse freddo e i nostri portatori non hanno dormito per niente, Michele li ha sentiti chiacchierare tutta la notte. Partenza alle 6. Fa un freddo cane, ho mani e piedi gelati. Al secondo guado scivolo su un sasso coperto di ghiaccio e paf: tutto il piede nell’acqua! Per fortuna alle 7 sorge già il sole che scalda. La parete della “Tour Ronde” che ieri vedevamo è in realtà una faccia del Mango Gusar. Alle nostre spalle compare l’Ogre (7285 mt) e un altro 7000 del gruppo del Latok. La salita è abbastanza dolce e l’acclimatazione ci evita la stanchezza. In più, ieri e oggi abbiamo preso un’Aspirina. Secondo Laurence de la Ferrière e Jean Triollet funzionano ottimamente come preventivo per il mal di testa. Non credo però, come dicono loro, per il loro potere antiaggregante. Dopo un po’ il pendio diventa una morena di sassi pericolanti: non ce n’è uno stabile e camminare diventa difficilissimo. Andiamo avanti così per due ore finché arriviamo a un nevaio. Per fortuna la neve è ancora dura e si può attraversare. Ci siamo già lasciati alle spalle lo Skoroblock perché ieri abbiamo fatto una tappa e tre quarti. Così, invece di fare lo Skoro-la domani, lo facciamo oggi. Continuiamo per nevai. I portatori temono la neve e appena possono preferiscono camminare sulla morena… Per l’ultimo nevaio, in lieve pendio (35°), tiriamo fuori le piccozze perché come scarpe abbiamo solo le Water-in Water out, e abbiamo indosso jeans di tela calze di lana e pile. Alle 10.15 arriviamo allo Skoro-la senza nessuna fatica. Il nostro altimetro segna 4860 mt! Tutt’e due le cartine segnano il passo a 5030. Che l’altimetro sia starato? In effetti, quando scendiamo, dopo 100 mt di discesa ne segna solo 50. Dalla cima il paesaggio è meno impressionante che dall’Ultar, però ai nostri piedi si stende tutta la lingua di ghiaccio del Mango Gusar che è bellissimo, la seraccata a fianco arriva fino allo Skoro-la. Davanti si vedono ancora i Latok e l’Ogre e dall’altra parte tutta la valle fino a Shigar, altre cime di neve e in lontananza, immenso, il Nanga Parbat. Fa proprio impressione e istintivamente vien fatto di pensare a qualche divinità.
La discesa dal passo è micidiale: ghiaioni e lastroni in bilico su un pendio ripidissimo, qua e là passaggi alpinistici. E’ benvenuto un tè con chapati alle 12, su cui metto la marmellata di arance amare: una bontà. I portatori dormicchiano. Ora fa caldo ma indossano ancora le nostre Kway (la mia bella della Bailo!) che gli abbiamo dato vedendoli morire di freddo. Eran vestiti solo di tela, anche se a strati, e con scarpe scalcagnate. E’ che han tutta l’aria di non volersene separare, anche ora, e dobbiamo pregarli di ridarcele, perché son le uniche che abbiamo. Il portatore giovane sta mettendo la sua tazza di tè sporca nello zaino e non capisce quando Michele gli dice di lavarla. Con un attacco di nervi (da stanchezza) ci vado io. La parte brutta della discesa dura 400 mt poi ci sono 100 mt di morbida erbetta e poi terra fino a valle dove arriviamo in un morena a 3800mt. Campeggio a Skoroblock ( quello dall’altra parte dello Skoro), ennesimo alpeggio con pakistani curiosi che vengono a vedere, e malati con i duroni fissurati che vorrebbero farsi curare. Domani bisognerà attraversare venti volte i fiumi di mattina presto, quando non sono in piena, e poi saremo a Shigar. Inch’Allah. Comunque siamo saliti più in alto della più alta vetta in Europa e senza nessuno sforzo. Non ci sarebbe voluto molto per un piccolo seimila. Temo che gli ottomila non siano così facili. Il grosso problema, come abbiamo verificato, è il freddo. Già a 4200 mt di notte fa freddino, chiaramente non eravamo attrezzati per un freddo polare, avendoci detto la guida a Skaran che non avremmo trovato freddo, ed era giusto. Inoltre, già il semplice trasporto della macchina fotografica e i suoi accessori è un peso che si fa sentire. Certo è necessaria una lunga acclimatazione. Nonostante tutto, io facevo ancora i salti a 4800 mt senza ansimare granché. Probabilmente i problemi dei cinquemila- seimila non sono quelli degli ottomila. A 6000 ragioni ancora pensando al tuo compagno, a 8000 sei solo e ti arrangi. Per quel che riguarda il trekking, il nostro è stato sicuramente particolare perché per metà alpinistico in una rregione deserta. Tutti gli altri trekkers fanno molto più semplicemente la strada battuta del Concordia che però deve essere eccezionale per la vista che ha. Adesso che l’abbiamo fatto, sappiamo che la prossima volta dovremo essere più attrezzati (vedi elenco in fondo al diario) soprattutto per quel che riguarda il cibo. Anche stasera porridge dolce e biscotti tipo Tuc e albicocche secche dell’Ultar. Inoltre sarebbe meglio essere in quattro, sia per ragioni di sicurezza che di economia (divisioni delle spese della jeep e del sirdar). Darba= yogurth in Baltì
Martedì, 30 luglio. Skardu
Dormito male a causa delle innumerevoli beccature di pulci o cimici che mi stanno assaltando da 3 giorni, prese probabilmente da una delle coperte che ci hanno gentilmente dato in un villaggio Balti. E io che ho lasciato il Pulvis 3 (antipulci) a Skardu, pensando che in campeggio non era necessario! La prossima volta devo anche portare la lima per le unghie che si rompono e la forbicina per le pellicine che sono dure. Inoltre portare un guanto per lavarsi, invece dei Kleenex che si rompono, tanto qui si asciuga. In quanto ai vestiti, portare quelli come le camicie Tuareg, fatte proprio per questo e che a Milano non porto, tanto nel trekking se ne usano in tutto 2 (al massimo). In questo trekking è stato utilissimo il bastone. Dev’essere alto, perché nell’attraversamento dei fiumi quello basso sbilancia, e bello grosso per potercisi appoggiare, solido ma leggero. Serve per tutto, fiumi, discese, passaggi sulle morene, salite.
Partenza alle 5.40 e primo guado. (ne faremo 13 più altri 6 piccoli). L’acqua mi arriva a metà coscia: a questa altezza e a quest’ora è gelida, e la corrente velocissima, faccio fatica a passare. Al terzo guado mi immergo quasi fino alla vita: se Michele non mi avesse tenuto sarei finita tutta in acqua. Il terrore dei guadi mi fa sudare per la prima volta: sento l’odore rancido della paura. Poi ci faccio l’abitudine e imparo come si guada, piantando i piedi e il bastone saldamente nell’acqua e resistendo contro la corrente con tutto il corpo girato un po’ a monte, in modo da contrastarla. Alla fine, li trovo anche divertenti, specie che l’acqua è più calda (relativamente!). Tutti questi guadi sono attraversamenti dello stesso fiume, lo Skoro, perché il sentiero passa ora su questa riva ora sull’altra, venendo da una gola strettissima e tortuosa, tipo Grand Canyon. Prima di questo ci sono stati i soliti saliscendi, fatti ormai con un’incredibile leggerezza, su sentieri che delle Bocchette del Brenta hanno lo strapiombo, ma sono su una roccia marcia che frana ad ogni passo. Ci abbiamo ormai fatto l’abitudine, a tal punto che il nostro passo è sicurissimo e non facciamo neanche caso all’abisso al nostro fianco, e al fatto che a volte il sentiero è più stretto della larghezza del nostro piede, o non c’è, o è su rocce mobili. I nostri portatori hanno il piede sicurissimo, sia in montagna che nei guadi e vanno così spediti che, se non avessero il carico e si fermassero a riposare ogni tanto (e adesso meno di prima, perché i carichi sono più leggeri) non riuscirei a stargli dietro. In certi punti, dove la montagna frana e una lingua di sabbia arriva fino al fiume, come in un nevaio, chiedono a Michele di passare davanti per fargli strada. Il paesaggio è splendido: roccia nuda fino in basso, dai colori cangianti, verde, viola, rossa, marrone. Ci sono delle pietre che non abbiamo mai visto altrove, sembrano dipinte a righe come stoffe di seta. C’è anche la pietra ollare. Nel fiume, in un certo punto, ci sono dei massi rigorosamente verdi. Ci fermiamo a un piccolo alpeggio con radi pascoli, per mangiare una varietà di chapati più spesso, che chiamano “food”, con dello yogurt un po’ rancido. Seconda sosta più tardi a un secondo alpeggio: troviamo dei Balti che stanno andando a valle anche loro, con una pecora nella gerla perché ha appena partorito un delizioso agnellino, ancora sporco di placenta, che non sa neanche stare sulle sue zampette. Lo prendo in braccio e si addormenta. I Balti dividono con noi uno straccio pieno di albicocche:”Lavate la frutta! Non bevete l’acqua se non è bollita o sterilizzata!” Mi sai dire come facciamo? Beviamo perfino l’acqua fangosa dei fiumi. Beviamo circa 3-4 litri al giorno. Qui sono tutti gentili e generosi con noi: ci hanno offerto le albicocche e chapati senza chieder nulla. Probabilmente si aiutano molto tra di loro, perché i nostri portatori hanno trovato dovunque caldissime accoglienze, letto e cibo, forse perché sono tutti imparentati tra di loro o forse perché le condizioni di vita da queste parti lo impongono. Con noi sono certamente gentili, ma poi subentra il lato “greedy”e cominciano a chiedere soldi, biscotti, caramelle e medicine. E’ pesante sentirsi chiedere in continuazione qualcosa e si capisce cosa devono provare i parenti ricchi quando quelli poveri si aspettano sempre regali da loro. Un’altra seccatura è quella di essere sempre osservati come bestie allo zoo, dovunque ci fermiamo. Ci si piazzano davanti, toccano questo e quello, dicono Hallo e Give me questo e quello, e ti fissano con tale curiosità che non capisci cosa abbiano da guardare. Prima dell’ultimo guado mi faccio un altro buco sui pantaloni pakistani che ho messo apposta per guadare, perché sono leggeri e ampi e posso arrotolarli sulle cosce. Arriviamo in pianura: ci sono alberi carichi di albicocche mature, per terra è pieno di albicocche cadute e di mucchi di albicocche a seccare. E sono dolcissime, altro che le nostre. Bambini pestano albicocche in un mortaio. Ho capito perché ce ne sono tante: crescono a grappolo, come l’uva.
A Skoro (tout court) troviamo subito una jeep privata che sta andando a Skardu. Paghiamo i portatori e io scrivo per Mutik sulla sua cartolina che lui è un “very good porter, helpful and cheerful” ma non scriviamo niente per gli altri due che si sono solo lagnati e hanno fatto sempre portare tutto a Mutik, che è venuto con noi per 3 gg e gliene abbiamo pagati 2, ma lui è contento. Probabilmente, più ci si allontana da Dassu più è facile trovare portatori meno costosi, così come il tè con le uova a Kurfè costava tre volte di meno che nel primo villaggio. Comunque diamo ai portatori pentole e cibo e solo dopo ci accorgiamo che hanno tenuto la nostra borraccia verde che in questi giorni utilizzavano. Sulla jeep c’è un americano musone che ci chiede da dove veniamo e cosa abbiamo fatto e poi si chiude nel suo silenzio; dev’essere uno del Dipartimento Aiuti al Pakistan ed è trattato con estrema deferenza. A Shigar ci fermiamo per 20 minuti perché il proprietario della jeep pranza. Noi restiamo dentro e siamo circondati da una folla di curiosi che non se ne vanno neanche se non gli dai retta o li cacci. Quando ripartiamo, sul sedile dietro ci sono due uomini, una donna e due bambini. La piana tra Shigar e Skardu è incredibile, un vero deserto di dune di morbida sabbia.Passiamo l’Indo che qui è in piena. A Skardu ci accoglie il K2 che per fortuna ha una camera. Doccia, lavaggi, ordine, poi down-town a comprar biscotti e un antiparassitario (probabilmente è DDT puro, ma ho così tante beccature che non ne posso più. Stanotte ho sognato Alien. I biscotti sono unti d’olio e ci si piazzano sullo stomaco fino alla cena :meat balls speziate, riso, patate e spinaci un po’ speziati, macedonia di albicocche e melone. Voglio una paillarde con le zucchine trifolate!! Al K2 troviamo Wanda Ruckiewiz, francamente poco accogliente ma deve avere le sue preoccupazioni, ha fatto il Nanga Parbat e va a fare il Broad Peak con una compagna, Barbara, che sembra sulla cinquantina mentre Wanda sembra sui 40 passati. Si è aggregato a loro quello Schafter, ginevrino che vive a Chamonix e che abbiamo incontrato con Escoffier a Dassu. Pare che Escoffier sia nelle grane con il governo perché non aveva il permesso per il K2 (e non sanno che dopo ha tentato il Broad Peak e si è fermato a 7000 mt e rotti), pare che ormai non rilascino più di due permessi per persona all’anno, ed Escoffier si era vantato troppo in giro di aver fatto il K2. Dicono che lo interdiranno dal Pakistan per 5 anni. All’hotel c’è anche un gruppone tipo Nouvelles Frontières di francesi non simpatici che non avviciniamo neanche; due austriaci che abbiamo visto a Karimabad e altri due dall’apparenza germanica. Stanno ingrandendo enormemente l’hotel. In compenso ci sono continue “pannes” di corrente elettrica e in questo momento sono a tavola alla luce di una candela.
Skardu, 1 agosto, Giovedì
Prendiamo la jeep per andare al lago Katchura, ma ci fermiamo alla PIA per prendere i biglietti per Pindi per domani. La PIA apre alle 8 e noi siamo puntualissimi: l’ufficio è aperto ma l’impiegato non c’è: “Arriva tra pochi minuti” ci dicono. Cioè alle 9.10. Quando arriva ci fa i biglietti e ci dice di tornare alle 11 che ci saprà dire su che volo siamo. Furiosi, gli diciamo che gli telefoneremo e speriamo in bene. Dopo trequarti d’ora arriviamo al Katchura lake, dove c’è lo Shangri-la Hotel, definito dal proprietario “Heaven on earth”. Forse perché è uno dei rari posti in Pakistan in cui c’è ombra, ma è l’unica cosa che ha di bello.
La costruzione è tipo pagoda svizzera e tutto il posto vorrebbe essere un giardino svizzero, ma è a metà tra la terrazza di mia zia e il giardino con i nanetti. Il lago è poco più di uno stagno. Di pini non se ne parla. C’è qualche platano e betulla e intorno le solite montagne aride. Il Satpara lake era molto più bello e più naturale. Qui si potrebbe fare il bagno, perché l’acqua è solo freddissima, non gelata, ma mi vergogno a farlo con la gonna. Torniamo a Skardu alle 2. L’uomo della PIA, dopo mia telefonata, ci ha lasciato i biglietti al Tourist Cottage, perchè la PIA è chiusa: e miracolosamente ci sono davvero.
A Skardu c’è una festa importante: 1 agosto, è l’anniversario della morte di Maometto e di suo nipote, così ci dicono. La strada principale è invasa da gente che si batte il petto forsennatamente al ritmo di nenie uscite da grosse radio che tutti portano in spalla; ma più in là ci sono i flagellanti che, a torso nudo, si flagellano a sangue la schiena con fruste a 4-5 code di metallo, formate da una catena metallica che termina in una lama.
Le schiene sono rosse di sangue, molti colano sangue dalla faccia e dalle braccia, altri sono portati via in ambulanza. Non vogliono essere fotografati e la polizia ci avverte di non fare foto e di allontanarci, perché può essere pericoloso. In un vasto campo dietro alla strada principale le donne, velate, sedute per terra, assistono alla stessa cerimonia che si svolge anche lì. (foto sotto)
Al centro, due bare avviluppate in drappi colorati, vengono portate a spalla dagli uomini. Michele continua a fotografare, ma con lo zoom, mentre io, fifona, ho paura che ci arrivi qualche sasso in testa. In effetti, in quattro occasioni, tagliamo la corda velocemente perché vengono verso di noi con aria minacciosa o perché le donne ci indicano agli uomini perché ci caccino. La sera, a cena , probabilmente perché è festa, abbiamo dei veri tovaglioli! Il pollo, chiesto espressamente non piccante, è al chili e mi brucia la gola. Allo Shangri-la dormo bene, senza pulci, finalmente.
Peshawar, 2 agosto, Venerdì
Sveglia alle 5.45: bel tempo. Un Suzuki di lusso ci viene a prendere per condurci all’aeroporto. Sento già un po’ di nostalgia a lasciar la pur poco amata Skardu. In aeroporto c’è una lounge separata per le donne. Si parte con un ritardo di un’ora. La giornata è soleggiata ma sulle montagne è nuvoloso e il Nanga Parbat non si vede neanche. L’aereo vola in VFR infilato nella valle, facendo tutta la strada fino a Gilgit e di lì la KKH. Arrivati a Islamabad, per 140 rs, praticamente niente, compriamo i biglietti aerei per Peshawar e ci infiliamo nel ristorante per le sei ore di attesa. Ordiniamo una crème caramel: è rosa, con i chiodi di garofano, e dura come un semifreddo.L’attesa è lunga e ad un certo punto viene un ufficiale a chiederci, cortesemente, se e quando abbiamo il volo. Il volo da Gilgit è stato cancellato per il cattivo tempo. Abbiamo avuto una bella fortuna con il volo da Skardu; l’altro ieri i voli erano cancellati e la strada bloccata. Se fossimo andati via terra avremmo dovuto passare nuovamente da Gilgit: non c’è strada diretta Skardu-Pindi. C’è gente che aspetta giorni e giorni il volo ed era tutto prenotato fino ai primi di settembre, ma gli occidentali hanno la priorità. Sarà per questo, ma ero molto emozionata a riuscire a prendere finalmente il volo. Islamabad, ore 12.51: avvertiamo distintamente una scossa di terremoto che si prolunga per un minuto. Ieri a Peshawar c’è stata una scossa di 6° grado e tutti sono usciti dalle case. Voliamo in un grosso temporale con notevoli scossoni.La Peshawar nuova è a tratti verde e ricorda, più in povero, la nuova Delhi, quella inglese. Il Dean hotel, uguale al Flashman (l’architetto è lo stesso, un italiano)non ha posto e comunque è costoso. Ci consigliano il Green’s. Visto da fuori ci becchiamo uno spavento: sembra una topaia di sesto ordine! Sorpresa! Dentro è un lussuoso kitsch con stucchi e arabeschi di plastica. Il ristorante è piacevole e le vetrate danno sulla strada, che è shabby. All’interno le camere si aprono su un giardino che pare una giungla. C’è l’aria condizionata e ci fa piacere anche se gli asciugamani sono grigiastri e i muri del bagno scrostati: è lo stile locale. Uscendo la sera per cena, incontriamo Donatella, che avevamo visto a Hunza con la spedizione Pinelli, due giovani medici che lavorano qui e una dottoressa di 60 anni, nonché alpinista, che ha fatto da sola il Gasherbrum VI, finora inviolato. Andiamo al ristorante cinese Nankin, buono. Discussione con Donatella sulla morale musulmana: secondo lei chi va in giro in shorts lo fa a suo rischio ed è anche villano. Pare che Peshawar sia una delle città più bigotte. Dei due ragazzi, uno è ortopedico al CTO di Torino, ed è qui per quattro mesi per gli aiuti agli Afghani: prende 4 milioni al mese. L’altro ha fatto tre anni di volontariato (come servizio civile) in Tanzania, pagato poco. Adesso lavora come “esperto” del Ministero degli Esteri su un programma di prevenzione della tubercolosi nel quadro degli aiuti agli Afgani, a 10 milioni al mese. (Se mi stufo dell’Italia e della De Marchi ci posso pensar su…). La dottoressa sessantenne è cattedratica di Anatomia Chirurgica a Firenze e amica di Fosco Maraini. Ha fatto un sacco di cime in giro per il mondo e sempre da sola. E’ una dura e testa dura, ma se fosse stata così la mia mamma, mantenendo la sua dolcezza…è possibile? Dopocena, gelato confezionato, coloratissimo ma buono e doccia calda!
Peshawar, Sabato 3 agosto
Che bel sonno! Colazione piacevole con Testa-dura, banca, PIA,libreria inglese discretamente fornita, cartoline brutte: con tutte le montagne che hanno!neanche una del K2, pranzo in camera con banane e manghi (yuppi!), lettura, bazaar, acquisto di shalwar qalmiz per me, tè, lettura, cena cinese, ouaaah! Si conferma la cappa di umido piombo. A piedi al bazaar (che stancata!) nella vecchia città. Una meraviglia, un merletto unico, ma mezzo disfatto per l’incuria. Legni scolpiti, bow window, arabeschi e mosaici di legno, moschee di zucchero candito, il tutto nascosto da insegne, arazzi,drappi, stoffe, tappeti che pendono dall’alto, nelle stradine ingombre di ogni merce, con un rumore assordante di clacson e di gente. Donne completamente velate, con solo una griglia ricamata sugli occhi per poter vedere, bambini nudi, storpi che si spostano scivolando per terra su appoggi fatti da gomma di pneumatici, afghani con il turbante e il fucile, vecchi dementi e tutta un’umanità odorosa e colorata. Stoffe bellissime, noodles colorati che sembrano caramelle, bellissimi brass and copper works (ma più belli al Cairo), tappeti coloratissimi, splendidi gioielli d’argento, tantissimi lapislazzuli e poi meloni, noci di cocco, mele pesche manghi banane pistacchi frutta secca dolci dai colori più impensati, frittelle, fritti misti, montagne di spezie rosa, verdi , marroni zafferano. E poi panettieri che fanno il chapati, barbieri che si riconoscono da lontano dagli asciugamani stesi fuori, botteghini dei chiromanti, fabbricanti di scarpe sul momento, artigiani che lavorano l’argento con sistemi primitivi,venditori di pannocchie bollite o tostate, teste di capre scuoiate avvolte dalle mosche, friggitorie ambulanti, mendicanti cenciosi coperti di tela da sacchi rattoppata, pazzi urlanti, pecore tinte di rosa e arancione, venditori di pappagalli verdi, silenziosi nelle loro stie di vimini, negozi di ventilatori dove ci si sofferma per ore ad asciugare il sudore, venditori di semi di loto ancora sullo stelo, bambini che ci gridano hallo e ci tirano per la manica per vendere chewing gum e caramelle, bambini che per poche rupie ti fanno vento col ventaglio, e pecore dal sedere enorme che mi fanno pipì sul piede.
Peshawar, Domenica 4 agosto
Colazione con Testadura che si chiama in realtà Miri Ercolani (nome già sentito). Si chiacchiera fino alle 11 sul crollo della lira, gli stipendi da fame degli universitari e gli stipendi vertiginosi che il Ministero degli Esteri paga qui. Giretto nel bazaar a fianco, colazione con manghi e banane, placida lettura in camera. Alle 3 viene Ivana e tutti e 4 torniamo nel bazaar della città vecchia a fare foto. Fa molto caldo, ma lo sento meno con il shamir qalwaz. Non c’è molto da fare qui al Khyber Pass e al Land Kotal non ci permettono di andare, lo Swat è lontano e siamo stufi di viaggiare come sardine. Facciamo vita da turisti. Spese ieri 30.000 lire in libreria, comprato anche un piccolo vocabolario di inglese, solo 36 rps , prezzo speciale per il Pakistan per favorire la diffusione dell’inglese. Cena al cinese con Miri a parlare di alpinismo e alpinisti.
Peshawar, 5 agosto, Lunedì
Colazione. Arriva Testadura e dopo di lei un afghano a cercarla. E’ il capo del governo in esilio, uomo bellissimo, alto, dai lineamenti medio-orientali mi ricorda tanti fuoriusciti ebrei dall’Egitto. Parla in un ottimo francese, avendo studiato al liceo francese di Kabul e alla Facoltà di Legge al Cairo. Parla delle torture agli afghani e della sua lotta presso i governi europei e Amnesty International per denunciare questi fatti che nessuno conosce e del tentativo del governo afghano di arrivare a una soluzione diplomatica facendo a Kabul un governo all’immagine di quello iugoslavo di Tito. Dopo colazione, mattina al Peshawar Museum, ricco di statue bassorilievi e oggetti dell’arte Gandhara. Pranzo europeo leggero al Lala’s Grill dell’hotel, dormita e lettura. Nel pomeriggio, col solito caldo torrido, dal baker per qualche delizioso dolcetto al cioccolato che mi rimane sullo stomaco, poi risciò per il bazaar. Non sono dei veri risciò ma degli Ape con il tettuccio. Svirgolano in un traffico caotico dove tre automezzi si superano contemporaneamente, mentre ciclisti e pedoni tentano attraversamenti azzardati. Nessuno si scompone, un ciclista viene sfiorato dall’autobus e appena si sposta, un motociclista supera l’auto e la obbliga a frenare di colpo, calessi con cavallo coesistono con Toyota a passo lungo, autobus afghani allargati a bauletto con biciclette pesantissime. Le strade più strette sono prescelte dai motociclisti che, per fortuna, non vanno in fretta (non possono). La guida è a sinistra, come in India, il traffico è il più caotico e assordante che abbia mai visto, anche nelle affollatissime stradine del mercato. Compriamo alcune stoffe, mercanteggiamo un po’ con un tizio che continua a chiamare Michele “my brother”. Michele cerca invano dei bei coltelli, troviamo invece gli arnesi per i flagellanti: le lame sono affilatissime, forse è anche una prova di coraggio. Forse è inutile che io cerchi di descrivere la povertà di questi posti. Forse, se dicessi che sono all’epoca medievale basterebbe. E per quanto riguarda le montagne, per certi versi sono addirittura all’epoca della preistoria. Non conoscono l’aratro, trebbiano con i buoi, le case sono di fango con il tetto di paglia, non hanno le posate, vanno a piedi nudi, come medicinali hanno solo erbe ecc Torniamo col calesse. Alle 7 arriva il diluvio. Abbiamo appuntamento alle 20.30 al NanKong con Riccardo e Ivana. Tentiamo una sortita con l’Invictella e la pila frontale (è saltata anche la luce) ma tutta Peshawar è un lago. L’acqua straborda da un lato all’altro dello spartitraffico alto 30 cm. Impossibile chiamare un taxi, non esiste la chiamata telefonica ai taxi. Torniamo indietro, è pericoloso star fuori, la città è disseminata di buche e tombini aperti che con la pioggia battente rischiamo di non vedere. Proprio vicino al nostro albergo un povero signore, al buio, cade inavvertitamente in una di queste bcuhe, larga 1 metro e profonda 2, slogandosi una caviglia. Tentiamo di telefonare a Riccardo: il telefono in città funziona solo su prenotazione, non esiste la chiamata diretta. Finalmente lo becchiamo e viene a prenderci. A cena, noi 4 più Miri. Si parla di trekking. Pare che, tra le altre cose, Miri sia stata derubata al Baltoro di 4 containers con i viveri. Ha anche avuto un sacco di grane con i portatori e con il sirdar ,( che era poi quel Fida cha abbiamo incontrato a Skardu e che ci ha chiesto 250 rupie al giorno: pare che per legge gliene devi dare il 10% in più di quello che prendono i portatori, perciò al massimo 60 rupie!) e con il liaison officer, che odia il Pakistane i suoi cittadini. Pare che abbiamo sbagliato a non provare il ristorante Salateen, il migliore pakistano della città, e non speziato, ma la paura di mangiare speziato era troppa. Baci e saluti a tutti, Miri si è rivelata molto cara.
Da Peshawar a casa, Martedì 6 agosto
E così, per concludere degnamente, ci fregano alla Banca dell’Oman, dicendoci che hanno solo il rate di ieri, di 0’30 più basso e quindi non possono farci la ricevuta. Poi scopriamo di avere troppi soldi pakistani e compriamo due cose afghane (avrei comprato volentieri altre stoffe). Stiamo per partire quando un americano ci viene a chiedere se abbiamo sangue A negativo: un francese ha avuto un car accident (Riccardo ne ha già avuti 3 da quando è qui) con emorragia interna e sta morendo all’ospedale. Non si capisce perché all’ospedale non ce l’hanno. Sembra che non sappiano fare il cross match, possibile? All’aeroporto solite frugature puntigliose dei bagagli a mano (in Pakistan c’è la legge marziale). L’aereo per Karachi è pieno di pellegrini che vanno alla Mecca: ieri c’era un tal rush che 10 passeggeri aventi diritto sono stati lasciati a terra per far posto ai pellegrini, che improvvisano una preghiera (negli aeroporti c’è un’apposita prayer hall). A Karachi la PIA mette a disposizione di quelli che hanno la coincidenza un bellissimo albergo, il più europeo da quando siamo qui. Casa si avvicina! Partiamo… con 3 ore di ritardo.
FINE